Parecchie persone che sento di rado e incontro ancora meno, soprattutto per via della distanza che ci divide, mi hanno scritto o telefonato in queste settimane. Si sono preoccupate, vista la situazione emergenziale alle latitudini toscane, per quello che stava accadendo a partire dalla sera del 2 novembre. Le notizie – che lo scrivo a fa’ ? – volano in uno schiocco di post e il “caso” Toscana è diventato, in Italia e non solo, questione di portata nazionale. Immagino che questi amici, parenti, colleghi che, oltre a me, avranno contattato anche altri conoscenti sparsi nelle province più colpite, siano rimasti impressionati da foto, video, messaggi che rappresentavano una realtà a tratti apocalittica.
Moltissimo è stato prodotto dall’informazione pubblica; non oso immaginare cosa possa essere stata la dimensione parallela chiamata “social”: auto galleggianti diventate virali, audio con scrosci d’acqua in sottofondo, cumuli di mobilia immortalati in bianco e nero…
Venerdì, in occasione dello sciopero nazionale, alla manifestazione di Firenze ho incontrato Giuseppe, un docente che ha subito ingenti danni a causa di quanto accaduto la sera del 2 novembre. Nonostante fossero legittimi, stando alle reazioni della maggior parte delle persone che si trovino nella medesima situazione, sentimenti di rabbia e/o disperazione, questo insegnante di scuola media ha deciso di ragionare in maniera diversa e, anziché sedersi al bar dello sport per poter inveire contro l’alluvione (presunta tale) e far ricadere le responsabilità di quanto accaduto sulla pioggia e la natura matrigna, ha amaramente ammesso che gli ospiti all’interno della natura siamo noi, con lo stravolgimento dei corsi d’acqua, con l’incapacità di gestire e manutentare ciò che ci costruiamo intorno, con l’attitudine a quantificare in termini di costi/benefici solo su un piano squisitamente economico e materiale.
Cioè, parliamone: all’interno di una manifestazione che contesta aspramente la legge di bilancio, che critica il governo, che grida imbufalita contro le precettazioni e che vede una partecipazione massiccia di persone ancora sporche di fango e con le mani piene di calli a forza di spalare, vado a beccare chi, anziché piangersi addosso e darsi all’incazzatura generale, pondera attentamente su ciò che è successo e individua le tre, quattro cose che andrebbero cambiate domani mattina per poter vivere in un luogo migliore? Pensa te il caso…
I fiumi in piena ci sono stati e hanno prodotto paura e danni (e morti); ma quelli davvero fuori controllo, sono stati i fiumi di parole che si sono rimbalzati sin dalle prime ore: tirare in ballo il cambiamento climatico solo per comodità, per richiamare regioni e stato ad un intervento massiccio, è un ottimo strumento di distrazione di massa per dare la colpa a tutti e al tempo stesso a nessuno. Sarebbe più opportuno interrogarsi sul perché un fenomeno atmosferico durato alcune ore abbia potuto produrre disastri; chiedersi perché le conseguenze siano state a macchia di leopardo, con corsi d’acqua che in alcune zone hanno esondato e spazzato via tutto e poi, a distanza di pochi chilometri, sono rimasti al di sotto dei livelli di guardia; interrogarsi su eventuali correlazioni tra mancanza di bonifica, pulizia, manutenzione, controllo, prevenzione e l’entità dei danni; esigere chiarezza sul perché un ospedale di moderna concenzione e costruzione sia stato costruito su un fiume tombato; domandarsi se non siano da rivalutare radicalmente i criteri di costruzione e antropizzazione di territori che hanno raggiunto la saturazione e superato da decenni una soglia di allerta…
Il vero dramma nel dramma è declinare ogni riflessione, prospettiva e rilancio per il futuro, a un mero calcolo in euro. “Se non arrivano i soldi, qui non si riparte”. Giusto. E quando, invece, arriverrano? Costruiremo meglio? Ragioneremo come comunità, come corpo collettivo? Faremo prevenzione? Esigeremo una protezione civile attrezzata, formata, remunerata? Daremo più fondi ai consorzi di bonifica? Chiederemo una mappatura delle aziende e, in particolare, del settore florovivaistico e un controllo della loro filiera produttiva e del loro impatto sul territorio?
In estrema sintesi, cosa impareremo da questa esperienza? Per dirla con Giuseppe “solo a correre a ricomprare la macchina”.
●