Prima di postarvi l’articolo che segue, vi incollo un breve e recente scritto di Gennaro Carotenuto (www.gennarocarotenuto.it):
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Verso il fidanzatino quindicenne che uccide perchè non ha più la dignità arcaica di "riparare" ma non ha nemmeno (ancora?) una sensibilità moderna di rispetto e concepisce l’eliminazione fisica del problema, come da copione di diecimila telefilm con i quali è stato bombardato dalla nascita, verso il marito picchiatore che instaura in casa la legge della giungla, verso il ragioniere che va a puttane e si sente libero di prendere loro anche la vita, non c’è pacchetto sicurezza che tenga, non ci sono leggi speciali, rotture di Schengen che servano e non c’è ronda che salvi.
Per quanto arduo e di lunga durata possa apparire c’è solo la cultura che ci può salvare. Se ancora ci si può salvare. Non l’alta cultura, ma la cultura della vita, del rispetto dell’altro, dell’altro donna in questo caso, ma anche dell’altro lavoratore senza diritti, o mille altri esempi. Ovunque ci sia una possibilità di istaurare un rapporto gerarchico (anche solo per forza fisica come avviene tra uomo e donna), un rapporto verticale tra forte e debole, questo va criticato, deve essere oggetto di riflessione e bisogna lavorare per abbattere tale gerarchia.
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Maggio 13, 2008
di Sergio Bontempelli
Tornano in questi giorni, a proposito dei Rom, le infamanti accuse di rapimento
di bambini. Accuse false, inventate e drammaticamente simili a quelle che, solo
pochi secoli fa, colpivano gli ebrei: cerchiamo di ricostruire brevemente le une
e le altre, sul filo della memoria storica.
Dunque, gli zingari ruberebbero i bambini: è quanto si apprende dalla stampa
nazionale di questi giorni, a proposito del caso recentemente accaduto (o
inventato) a Ponticelli, vicino Napoli (che, come riportano le cronache di oggi,
ha avuto un seguito drammatico, con aggressioni e violenze contro i Rom). Una
vicenda dai contorni ancora poco chiari, ma che secondo alcuni quotidiani (il
più convinto sembra Il Giornale) non lascerebbe dubbi. Le cose stanno proprio
così, i Rom rubano davvero i bambini? Vediamo più da vicino…
I Rom, oggi…
Una inchiesta condotta recentemente da Alberto Prunetti, e pubblicata sul blog
Carmilla on-line, ci restituisce alcuni dati interessanti: «Da fonti Reuter, e
sulla base dei dati forniti dalla polizia di stato, i minori scomparsi in Italia
nel periodo 1999-2004 (nella fascia dei minori di 10 anni) sono stati “portati
via” da uno dei genitori per dissidi coniugali o, soprattutto nel caso di
bambini stranieri, sono casi di bambini affidati dal Tribunale dei Minori a
istituti, bambini che vengono “prelevati” da un genitore che si rende poi
irreperibile assieme al figlio. Per quanto riguarda i minori di età tra i 10 e i
14 anni e tra i 15 e i 17 anni, prevalgono tra gli italiani i casi di ragazzi
allontanatisi volontariamente da casa per dissidi familiari, mentre rimangono
presenti tra gli stranieri le fughe, assieme a un genitore, dalle strutture in
cui i minori sono affidati, in maniera coatta, dai Tribunali dei minori (in
questi ultimi casi qualche romantico parlerebbe non di rapimento, ma di
evasione, per intenderci)». Di minori “rubati” dagli zingari, però, non c’è
nessuna traccia negli archivi giudiziari: se venisse confermato dal successivo
processo, quello di Ponticelli sarebbe il primo episodio in Italia. Certo, ci
sono i casi raccontati sui giornali: che però, spesso, si rivelano vere e
proprie bolle di sapone. Qualche esempio lo fornisce lo stesso Prunetti nella
sua inchiesta.
A Lecco, il 14 Febbraio 2005, tre donne rumene sono accusate di aver cercato di
rapire un bambino: la mamma dichiara di aver sentito distintamente le parole
“prendi bimbo, prendi bimbo”. Due delle tre ragazze Rom, difese da un avvocato
d’ufficio, decidono di patteggiare la pena, ma la terza, coraggiosamente,
affronta il processo e viene assolta: i giornali parlano solo delle prime due, e
tacciono sull’assoluzione finale.
Un secondo esempio, molto famoso, è il caso di Denise, oggetto di nuove accuse
contro i Rom in una recente puntata di Chi l’ha visto. Ecco come lo racconta
Prunetti: «Denise Pipitone, tre anni, scompare misteriosamente [nel Settembre
2004 a Mazara del Vallo]. Il fatto ha una enorme eco mediatica e si fanno
ipotesi diverse. Un mese dopo a Milano una guardia giurata vede al mercato una
bambina che gli ricorda Denise (vista in foto sui giornali), assieme ad alcune
“nomadi”. L’uomo scatta alcune foto col suo cellulare e sporge denuncia. Dopo
qualche tempo la polizia identifica la bambina della foto con l’aiuto di alcuni
rom rumeni. Si tratta neanche di una bambina, ma di un bambino rom, figlio di
una coppia che vive in un campo milanese. La notizia (anzi: la smentita) non
viene passata ai giornali, perché riservata a fini investigativi».
Un terzo caso, più recente, è accaduto a Palermo nel Luglio 2007. Una giovane
donna Rom finisce in carcere, accusata di aver tentato il rapimento di un
bambino su una spiaggia. Dopo l’iniziale e consueto battage scandalistico di
giornali e televisioni, il caso si sgonfia: la principale testimone/accusatrice
ammette di non aver visto un tentato rapimento, ma soltanto di essere rimasta
terrorizzata per la presenza della ragazza “zingara”. L’accusa viene
immediatamente ritirata dalla testimone, e la donna Rom esce assolta dal
processo: ma di questo, com’è facile immaginare, i giornali non parleranno.
Insomma, l’accusa di rapimento di bambini come pratica usuale dei Rom è
completamente priva di riscontri. In un altro articolo, pubblicato ancora sul
blog Carmilla online, Prunetti dimostra anzi il contrario: vi sono numerosi casi
di bambini “portati via” alle famiglie Rom. Si tratta di minori nati in Ospedali
italiani e che, per le difficoltà burocratiche di riconoscimento (perchè i
genitori sono apolidi o privi di documenti) vengono alla fine sottratti alle
famiglie e dati in affidamento; oppure di bambini più grandi, in età scolare,
“portati via” su ordine dei Tribunali dei Minori perchè abitano in campi nomadi,
baracche e altri luoghi impropri. In quest’ultimo caso, com’è facile
comprendere, l’essere sottratti alla propria famiglia è una violenza che si
aggiunge a quella del “campo” (dove è bene ricordarlo, i Rom non scelgono di
abitare, ma vi sono costretti).
… e gli ebrei, ieri
Accuse inventate, montature giornalistiche, scandali costruiti “ad arte” che si
sgonfiano nell’arco di pochi giorni: il quadro è straordinariamente (e
drammaticamente) simile a quel che accadeva agli ebrei qualche secolo fa. Anche
loro – secondo l’opinione pubblica e il senso comune dell’epoca – “rubavano i
bambini”, quelli cristiani, per ucciderli e usare il loro sangue a scopo
rituale. Questa leggenda nasce nel Medioevo. Il primo caso attestato risale al
1144, quando nella cittadina inglese di Norwich viene ritrovato il cadavere del
piccolo William: le autorità locali accusano gli ebrei di aver rapito il ragazzo
nel giorno di Pasqua, e di averlo crocifisso, secondo un macabro rituale
consistente nel ripetere il martirio di Gesù Cristo. Mentre il corpo del piccolo
William diventa oggetto di una vera e propria venerazione, l’accusa di rapimento
di bambini – peraltro mai verificata – si diffonde presto in tutta Europa:
episodi simili sono registrati pressochè ovunque, e danno vita a frequenti
persecuzioni, espulsioni e violenze contro le comunità ebraiche. A nulla serve
l’intervento di pontefici e sovrani – a favore degli ebrei si mobiliterà, con
argomenti stringenti e con straordinario coraggio intellettuale, persino
l’Imperatore Federico II.
Nel XIII secolo, alla tradizionale accusa di rapimento di bambini si aggiunge un
nuovo capo di imputazione: secondo le dicerie popolari – sostenute spesso da
autorità religiose locali senza scrupoli – gli ebrei non solo rapiscono i
bambini, non solo li uccidono, ma usano il loro sangue per pratiche liturgiche
pasquali. Il mito dell’omicidio rituale diventa così accusa del sangue: giudici
e inquisitori, chiamati a verificare la fondatezza delle dicerie sui “mostri
ebrei”, non esitano, lungo tutta l’età moderna, a ricorrere alla tortura per
estorcere la piena confessione degli imputati. Così, molti ebrei finiranno per
far “mettere a verbale” accuse false e infamanti, che legittimeranno le
successive condanne a morte.
L’apogeo dell’accusa del sangue si verifica nel 1475 a Trento. Il piccolo
Simone, passato alla storia col nome di Simonino, figlio di un conciacapelli,
scompare misteriosamente la sera del giovedì santo: il suo corpo viene
ritrovato, in condizioni strazianti, in un fosso d’acqua attiguo alla casa di
uno degli esponenti più in vista della locale comunità ebraica. Grazie anche
alle invettive di Bernardino da Feltre, predicatore antisemita senza scrupoli,
la comunità trentina si convince della colpevolezza degli ebrei. La stessa Santa
Sede, che inizialmente – come già aveva fatto in tutti gli altri casi – si
oppone alle persecuzioni contro gli ebrei, alla fine finisce per avallare
(seppur parzialmente e con molti distinguo) la versione degli antisemiti, e per
legittimare il processo. Da allora in poi, senza più ostacoli istituzionali,
l’accusa del sangue dilaga in tutta Europa.
Uno degli studi più attendibili e documentati sull’argomento spiega che l’accusa
del sangue non nasce dall’ingenuità popolare: essa è piuttosto il frutto di una
complessa costruzione istituzionale. «Il mito raggiunge la sua forma compiuta
[…] non tramite il lento, tortuoso e progressivo affastellarsi o agglutinarsi
di credenze e superstizioni popolari, ma grazie ai meccanismi processuali ed
inquisitoriali nei cui ingranaggi gli ebrei vengono scaraventati dalle autorità
ecclesiastiche e secolari di turno […]. Chiusi i processi e giustiziati gli
imputati il discorso sull’accusa del sangue viene poi articolato dalle élites
secolari, monastiche ed ecclesiastiche che lo diffondono poi con grande impegno
e dispiego di mezzi tra le classi subalterne» [R. Taradel, L’Accusa del Sangue.
Storia politica di un mito antisemita, Editori Riuniti, Roma 2002, pag. 132].
C’è, insomma, poco di spontaneo nell’accusa del sangue: più che rimandare alle
profondità della psiche collettiva, a paure ancestrali o all’ignoranza diffusa,
questa peculiare forma di antisemitismo ci invita a scavare nei meccanismi
(istituzionali, e istituzionalizzati) di costruzione politica del nemico.
Proprio come accade oggi con gli “zingari”, contro i quali si mobilitano non
tanto – e non solo – i timori “spontanei” della gente comune, quanto le
complesse dinamiche della costruzione mediale della paura.
Infine, un altro parallelo tra l’antisemitismo di ieri e l’antiziganismo di oggi
potrebbe (e dovrebbe) far riflettere. Così come oggi non sono i Rom a rapire i
“nostri” bambini, ma sono piuttosto le “nostre” istituzioni a sottrarre i minori
Rom, così allora erano i cristiani a rapire i piccoli ebrei. Ne è testimonianza
il cosiddetto «Affaire Mortara».
Edgardo Mortara è un bambino bolognese figlio di ebrei. La domestica della
famiglia, una cristiana osservante e devota, prende il bambino – che ha appena
un anno – e lo battezza di nascosto. Poi, tempo dopo, racconta tutto al suo
confessore, il quale decide di avvalersi di un complesso meccanismo legale, che
consente di strappare con la forza un bambino battezzato ai suoi genitori non
cristiani. Il parroco attiva in questo senso le autorità ecclesiastiche e, un
mattino del 1858, militari dello Stato pontificio si recano a casa Mortara a
“prelevare” il piccolo Edgardo. Seguirà una lunga vicenda giudiziaria, in cui la
famiglia riuscirà a mobilitare – peraltro senza successo – l’opinione pubblica
internazionale, e persino sovrani cattolici come Napoleone III e Francesco
Giuseppe.